Pandemia di COVID-19: i coronavirus e lo “spillover”.

[Photo: “MERS Coronavirus Particles” by National Institutes of Health (NIH) is licensed under CC BY-NC 2.0]

Viste le ferree regole imposte per la salute di tutta la comunità, è probabile che la maggior parte di noi abbia perso la nozione del tempo ormai da qualche giorno, specialmente se non svolgiamo uno dei lavori ritenuti “essenziali”. Tra un meeting online, un libro e una serie TV, ma soprattutto tra una diretta del Presidente del Consiglio e l’altra, c’è ancora spazio (e voglia) per leggere a proposito della pandemia in corso?

Forse sì, forse no. Nel dubbio ho pensato di aprire una piccola rubrica, come sempre al confine tra scienza, diritto e filosofia, per proporre pillole di alcuni dei temi più rilevanti di questa pandemia, offrendo anche spunti bibliografici di approfondimento. In Italia le prime manifestazioni epidemiche del COVID-19 (malattia) sono emerse il 30 gennaio, quando due turisti provenienti dalla Cina sono stati ricoverati a Roma, risultando positivi al virus SARS-CoV-2. Successivamente si sono riscontrati i primi 16 casi in Lombardia (21 febbraio), per poi giungere, come sappiamo, ai 69.176 casi positivi del 24 marzo 2020.

Primo tema prescelto per questa rubrica:
che cos’è, o per meglio dire, che cosa sono i coronavirus entrati prepotentemente nelle nostre vite? Da dove traggono origine?

I coronavirus (CoV) appartengono a una famiglia di virus in grado di causare malattie molto lievi (raffreddore), moderate (sindrome respiratoria mediorientale MERS) o gravi (sindrome respiratoria acuta grave – SARS). Il loro nome deriva dalle punte presenti sulla loro superficie, che tendono ad assomigliare alle punte di una corona. Questi virus sono la causa di diversi tipi di infezioni respiratorie e intestinali negli esseri umani e, prima ancora, negli animali. Prima dell’epidemia di SARS avvenuta tra il 2002 e il 2003 nella provincia di Guangdong in Cina, i coronavirus non erano ritenuti altamente patogeni per l’uomo. Infatti questi virus davano luogo a delle forme realmente lievi di infezione nei soggetti “immunocompetenti”, cioè, in estrema sintesi, dotati di un sistema immunitario in grado di fornire un’adeguata risposta a determinati “antigeni” (sostanze riconosciute dal sistema immunitario come estranee o potenzialmente pericolose) (1).

Gli studi effettuati sul SARS-CoV (alla base dell’epidemia del 2002-2003) avevano già messo il luce come molto probabilmente l’origine del virus andassero ricercate nei pipistrelli, attraverso la ricombinazione genetica e il conseguente passaggio dall’animale all’uomo (2).  Si tratta del fenomeno del “pathogen spillover”, più comunemente citato, di questi tempi, come semplice “spillover”. In che cosa consiste? Nella trasmissione di un’infezione tra specie diverse: si può trattare di zoonosi (quando il passaggio avviene dall’animale all’uomo), di zoonosi inversa (dall’uomo all’animale) oppure di sapronosi (quando il passaggio avviene tra un veicolo inanimato e un vertebrato) (3). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il 75% delle patologie infettive di recente scoperta sarebbe una zoonosi.

Il “salto” di specie non solo dal pipistrello, ma anche da molti altri animali selvatici, verso l’essere umano è stato raccontato magistralmente dal divulgatore scientifico, nonché giornalista per National Geographic, David Quammen. Il suo “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” (Adelphi, 2014) è tornato in quest’ultimo mese ai vertici delle classifiche di vendita e non è di certo un caso. 

Il punto cruciale appare quindi l’interdipendenza tra essere umano e animali selvatici, nell’ampia cornice dell’ambiente entro cui si relazionano. Una questione che offre molti spunti di riflessione non solo sul piano legale, ma anche, e prima ancora, su quello filosofico e dunque dei principi etici che dovrebbero orientare l’azione umana sull’ambiente nell’era della capillare globalizzazione.

 


(1) Istituto Superiore di Sanità, Cosa sono i coronavirus, in L’epidemiologia per la sanità pubblica, https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/cosa-sono.

(2) J. Cui et al., Origin and evolution of pathogenic coronaviruses, in Nat. Rev. Microbiol., 17(3), 2019, pp. 181-192.

(3) S.H. Sokolow et al., Ecological interventions to prevent and manage zoonotic pathogen spillover, in Phil. Trans. R. Soc., 374, 2019, pp. 1-10.

Gli albori della bioetica: l’essere umano e l’ambiente.

Dopo un mese di assenza, eccomi di nuovo qui a parlarvi di bioetica
da dottoressa di ricerca !
L’ultimo mese è stata un’autentica corsa sulle montagne russe, ma finalmente l’ambito titolo è stato conquistato e potrò tornare a occuparmi anche del blog.

 

Da dove ri-partire, quindi? Proprio dalla storia della bioetica, riprendendo quello che vi ho provato a raccontare in World Philosophy Day 2018: Bioetica, questa sconosciuta..

 

Si è detto che nel decennio 1965-1975  lo sviluppo tecnologico iniziò a rivolgersi all’essere umano, rendendo possibili interventi medici sul corpo umano prima nemmeno immaginabili. Il biochimico statunitense Van Rensselaer Potter inventò in quel periodo il termine «bioethics» per descrivere il ponte tra scienza ed etica, che avrebbe dovuto condurre il genere umano verso il futuro.  Potter cominciò a proporre la nozione di bioetica nel 1970, in un famoso articolo dal titolo “Bioethics: The Science of Survival” (Bioetica: la scienza della sopravvivenza), mentre l’anno seguente pubblicò l’opera completa contenente la propria teoria (“Bioethics: Bridge to the Future“, disponibile nella versione italiana per Sicania editore).

 

Qual era dunque l’idea di fondo di Van Rensselaer Potter?

Diversamente da ciò che si potrebbe pensare, il rapporto tra essere umano e medicina non era di per sé al centro delle riflessioni del biochimico. Il cuore dell’opera è infatti dedicato a dimostrare quanto sia pericolosa l’ignoranza che riguarda l’uso della tecnica e della tecnologia. Potter temeva gli effetti della loro applicazione sul lungo periodo, auspicando quindi la formazione di una coscienza etica collettiva, di un senso del limite da esercitarsi rispetto al progresso.

 

Concetti troppo astratti?

Secondo il biochimico era dunque indispensabile una “biological wisdom“, una consapevolezza dei rischi dell’azione dell’uomo sull’ambiente in generale, al fine di garantire un futuro al genere umano. Serviva perciò “la conoscenza di come usare la conoscenza”, visto che

« per quanto riguarda il resto della natura, [noi esseri umani] siamo come un cancro le cui strane cellule si moltiplicano senza restrizione ».

Questa affermazione del biologo marino Norman Berrill fondò il pensiero di Potter. Il biochimico riteneva infatti che l’istinto di sopravvivenza del genere umano non fosse più sufficiente e a entrare in gioco dovesse essere una vera e prorpia scienza della sopravvivenza.

In particolare, il biochimico aveva concentraro i propri studi in materia oncologica, arrivando a individuare i danni provocati dall’ inquinamento ambientale sulla salute umana.

«  La nostra era ha scoperto come far divorziare la conoscenza dal pensiero, col risultato che abbiamo, in realtà, una scienza che è libera, ma non ci è rimasta quasi nessuna scienza in grado di riflettere »

sostenne il medico franco-tedesco Albert Schweitzer, citato da Potter. Perciò appariva indispensabile ri-pensare l’azione umana, interrogandosi su come limitarne la portata sulle altre specie viventi e sull’ambiente circostante. L’assunto di base era che la possibilità di fare qualcosa non rendesse di per sé quel qualcosa accettabile sia sul piano morale, sia su quello scientifico. Ecco quindi il ponte tra etica e scienza.

 

Che cosa può quindi rimanerci da un primo approccio all’opera fondativa della bioetica, nella quale il termine stesso “bioethics” è stato coniato?

 

Da un lato lo stimolo a una costante messa in discussione di tecniche e tecnologie rispetto alle proprie condizioni e conseguenze. Dall’altro la consapevolezza assoluta dei pericoli che il genere umano pone in essere nei confronti delle altre specie viventi e dei loro ecosistemi. Elementi che oggi più che mai non possono essere minimizzati.

Infine, sembra interessante riflettere su alcune idee date per scontate nnell’immaginario collettivo. Si ritiene infatti che la bioetica sia nata avendo per obiettivo la tutela dell’essere umano rispetto all’impiego delle tecniche e delle tencologie su se stesso. In realtà, come abbiamo visto, l’obiettivo di Potter era quello di ri-mettere in discussione sì l’uso degli strumenti tecnici, ma nel più ampio contesto dell’ambiente in cui l’uomo vive.

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RIFERIMENTI :

  1.  V. R. Potter, Bioethics: The Science of Survival, in Perspectives in Biology and Medicine, 14 (1970).
  2.  V. R. Potter, Bioetica: ponte verso il futuro, Sicania, Messina, 2000 (ed. it.);
  3.  N. J. Berrill, Man’s Emerging Mind,New York: Dodd, Mead and Co., 1955;
  4.  A. Schweitzer, An Anthology, Beacon Press, 1948.